From Zero to Hero. Huge thank you for these 6 years!
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From Zero to Hero. Huge thank you for these 6 years!
Ho un po’ di paura, non lo nascondo, ma spero che stavolta mi vada tutto bene e che i successi non siano frutti di esaurimento e ansia. #talentacquisition #recruitment #changes #newchapter #clinicalresearch #clinicaltrials
https://www.instagram.com/p/CT0Id5MI-g51K85NWuVeEwSQlXNMhP0had5g440/?utm_medium=share_sheet
Hey. It’s Pride Month!
Over the next 30 days, we are actively encouraging you to share your LGBTQ+ pride with all of Tumblr. You deserve to be proud of who you are 365 days a year, but these next 30 days, we’re going all out. There’s no wrong way to do it. Upload an illustration. Write a poem. Make a GIF. Take a selfie and slap a Pride sticker on it. Maybe send a sticker to a friend. These precious babies are in your app right now:
Do one thing, do 100 things—whatever feels right. Just tag it with #TumblrPride so other people can find it. And, hey, if you can’t do any of these things, know that we still support you. You have every reason to feel proud this month, even if you aren’t ready to show it. <3
We’ll also be signal boosting other influential LGBTQ+ voices all month long. We’ve secured some really amazing people for Answer Time and Issue Time:
- 6/23—Gavin Grimm, 17 year old activist fighting for the equality of transgender students, held on Action (@action).
- 6/29—Becca McCharen, queer fashion designer and founder of fashion label Chromat (@chromat).
- 6/30—Trans Rights & Community, focusing on urgent issues that affect trans people, like violence, access to health care, and unemployment, held on Action (@action).
Have a safe and beautiful Pride Month, Tumblr.
Il cammino dell’umanità sembra inarrestabile, tutto proteso in avanti, verso lo spiegamento continuo di nuove forze e il superamento di limiti. Perché tali passi siano inquadrabili in un vero cammino -e non dunque da imputare a semplici salti euforici-, l’uomo deve esser mosso da un ardore ostinatamente curioso, ma d’altra parte a rendere durevole l’avanzamento è la ricchezza delle acquisizioni passate e presenti.
Nonostante l’apparente contraddizione di termini, il vero motore del progresso è la memoria, senza la quale si annasperebbe all’infinito passando di espediente in espediente.
Anche quest’anno a Siracusa è in corso fino al 9 luglio il “risveglio delle pietre”, custodi della nostra memoria, realizzato, come di consueto, dall’ Istituto Nazionale del Dramma Antico e dalle maestranze coinvolte. Protagonista della 53a edizione delle rappresentazioni classiche è una saga molto cara alla produzione drammaturgica attica, ovvero il ciclo tebano, in cui la colpa del capostipite si trasmette come un contagio di generazione in generazione fino all’ estinzione di tutta la stirpe dei Labdàcidi: Eteocle e Polinice, figli gemelli di Edipo e Giocasta, venuti a contesa per il potere, dopo un periodo di coreggenza, si scontreranno presso la settima porta, annientandosi a vicenda.
Ne I sette contro Tebe, messa in scena per la prima volta nel 467 a.C. entro la tetralogia organica chiamata Edipodìa (composta dalle tragedie Laio, Edipo, Sette contro Tebe e dal dramma satiresco Sfinge), Eschilo rappresenta fra colpa e necessità il compimento dell’oscuro destino tragico di una famiglia votata all’annientamento: anche se Eteocle muore da difensore della città, non può di certo definirsi “puro”, come d’altronde nessun altro dei personaggi sulla scena, dato che su tutti incombe la macchia del mìasma, vero motore dell’azione tragica. Come nelle altre sue opere (si pensi in particolare alla celebre trilogia Orestea), Eschilo si sofferma sul momento della catastrofe e affida al ghènos nel suo complesso il ruolo di cardine dell’azione e della riflessione tragica, senza tralasciare la fitta trama di relazioni con il contesto sociale, politico e divino a cui è indissolubilmente legato.
Pur nella natura familiare della tragedia, nelle caratterizzazioni dei personaggi emerge la natura fiera e passionale di Eteocle, difensore della polis e dell’ordine, anche a costo del fratricidio, quindi votato inesorabilmente alla colpa.
L’orrore e la pietà della contaminazione fatale lasciano il posto a una visione meno problematica ma con una resa scenica più spettacolare nelle Fenicie di Euripide che, pur raccontando nei fatti la stessa vicenda del dramma eschileo, riprende fonti meno popolari del mito e dà vita a una tragedia dalla forte tensione narrativa, fitta di eventi e personaggi. Qui, inoltre, si perde il tono di catastrofe familiare del mito a vantaggio del recupero dei valori della collettività, che in fondo sono quelli della democrazia ateniese, oramai in crisi irreversibile nel 411 a.C., anno della prima messinscena: Le Fenicie possono a pieno titolo essere considerate un’epopea sociale, non solo per il taglio narrativo e la forte “condensazione” scenica, ma anche per l’assenza di un vero protagonista, che emerga sugli altri per caratterizzazione psicologica.
A concludere la rassegna sarà un altro agone, questa volta poetico, che vede affrontarsi Eschilo ed Euripide, oramai nell’Ade. Nell’anno del debutto delle Rane di Aristofane (405 a.C.), infatti, i tre grandi tragici erano già morti e con loro si spegneva per sempre l’astro di Atene, oramai avviata verso l’implosione finale. Il duello a suon di metri e citazioni, alla fine, si conclude con la vittoria di Eschilo, campione dei valori tradizionali e vate di tutta una generazione, che Dioniso, dio del teatro, riporta con sé fra i vivi. Al di là della ben nota antipatia più volte dichiarata dal commediografo nei confronti di Euripide e della nuova generazione, in quest’opera trionfano l’amore per la poesia e la nostalgia per un mondo da poco naufragato: ad Aristofane, poeta, non resta altro che affidarsi alla sua arte e rievocare ai morti lassù la memoria di valori e uomini che hanno segnato un’epoca e ispirato l’umanità.
A seguire il comunicato stampa della campagna a cui ho deciso di partecipare, perché più vicina alla mia idea di promozione culturale (in questo caso attraverso la lettura).
In Italia si legge poco. E quei pochi leggono sempre gli stessi. È un fatto. Questione di visibilità, di ben orchestrate campagne marketing, di un monopolio editoriale conclamato. Difficile convincere un non lettore ad appassionarsi alle pagine scritte o allo schermo di un e-reader, lo sappiamo. Ma è altrettanto difficile far sì che un lettore forte, di quelli che leggono più di un libro al mese, scopra un panorama narrativo diverso da quello che gli viene proposto sugli scaffali delle grandi librerie di catena. Ed è per raggiungere quel lettore che nasce #ioleggodifferente.
Differente non vuol dire migliore, vuol dire diverso. Ci sono molti autori validi, pubblicati da case editrici piccole e indipendenti, che non riescono materialmente a raggiungere i lettori. Manca la distribuzione, manca la pubblicità, manca la volontà, anche, di andare “a caccia” di qualcosa di diverso, di un nome nuovo, di storie inconsuete.
#ioleggodifferente nasce per favorire l’incontro tra scritture poco conosciute e lettori.
#ioleggodifferente è su twitter: https://twitter.com/leggodifferente
e su Facebook con la pagina https://www.facebook.com/ioleggodifferente
#ioleggodifferente è su instagram, su pinterest, su google+
#ioleggodifferente è una rete di blog che da sempre si interessano di scrittori e scritture differenti.
#ioleggodifferente sarà un sito (di prossima pubblicazione).
#ioleggodifferente è, soprattutto, voglia di agire adesso:
gli autori che aderiscono al progetto mettono a disposizione una copia di un loro libro; uno stralcio verrà pubblicato sul sito. Chi vorrà lo leggerà e lo commenterà. L’autore, a proprio insindacabile giudizio, regalerà a un lettore/commentatore una copia del libro. Il lettore riceverà il libro e ne documenterà l’arrivo con una foto che verrà pubblicata sul sito, sui blog e su tutti i social coinvolti. Il lettore leggerà il libro, lo commenterà (a proprio insindacabile giudizio), poi sceglierà un altro lettore cui passarlo. E la procedura riprenderà in una catena di lettura/passaparola che può allargarsi ai librai che vorranno partecipare, mettendo in vetrina uno o più libri DIFFERENTI consigliandoli ai propri clienti (con l’indispensabile complicità degli editori coinvolti).
Invitiamo editori, autori, lettori e librai interessati ai libri DIFFERENTI:
a seguire #ioleggodifferente sulla pagina fb e sugli altri social e/o
a collaborare attivamente alle iniziative in preparazione iscrivendosi al gruppo fb #ioleggodifferente.
A breve il sito e molte novità: restate in contatto!
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Je suis l’Empire à la fi n de la décadence[1],
qui regarde passer les grands Barbares blancs
en composant des acrostiches indolents
d’un style d’or où la langueur du soleil danse.
L’âme seulette a mal au coeur d’un ennui dense.
Là-bas on dit qu’il est de longs combats sanglants.
Ô n’y pouvoir, étant si faible aux voeux si lents,
ô n’y vouloir fl eurir un peu cette existence!
Ô n’y vouloir, ô n’y pouvoir mourir un peu!
Ah! tout est bu! Bathylle, as-tu fi ni de rire?
Ah! tout est bu, tout est mangé! Plus rien à dire!
Seul, un poème un peu niais qu’on jette au feu,
seul, un esclave un peu coureur qui vous néglige,
seul, un ennui d’on ne sait quoi qui vous afflige!
(P. Verlaine, Languore)
Con questi famosi versi, considerati il manifesto del nascente decadentismo, Paul Verlaine ha effigiato la fin de siècle, tutta la temperie culturale ed emotiva della “decadenza” così emblematica di quella generazione. Una lettura del tutto originale, del declino di Roma, assurto ad archetipo dell’imminente trapasso, in opposizione ai miti trionfalistici e positivistici del progresso.
La percezione di essere alla fine di un’era e di varcare le soglie di un’altra dall’alba incerta, non è invero nuova all’Occidente, che ha lasciato nel corso della storia più testimonianze, marcate talvolta dalla prospettiva dell’apocalissi, talaltra da quello della conversione, per usare i termini di Cateno Tempio. Si pensi al dibattito innescato dall’avvento del cristianesimo: la strenua lotta allora ingaggiatasi fra difensori della tradizione e paladini della nuova fede portò in più di un caso ad attribuire proprio al cristianesimo le colpe della fine di Roma, ormai imminente e chiara agli occhi di tutti. Il sacco di Roma del 24 agosto 410 d.C. ad opera dei Goti guidati da Alarìco fu per l’intero Occidente un colpo durissimo, una rovina epocale, l’annuncio della fine del mondo: molti ne attribuirono la causa al cristianesimo, forza disgregatrice e rivoluzionaria che aveva spazzato via, con il senso di una nuova etica, i valori della tradizione e la religione dei padri. Questo bagaglio di motivazioni, e l’analisi che le ha di volta in volta espresse, sono tornati nelle riflessioni dei “moderni”, che hanno guardato alla fine di Roma ora con sguardo nostalgico, ora con la disincantata lucidità data dalla moderne armi della scienza e del rigore analitico; curiosamente, però, anche negli anni della ricerca più avanzata la memoria degli antichi timori e il fascino degli antichi luoghi comuni hanno continuato ad affacciarsi. Come a dichiarare, implicitamente, l’impossibilità di un distacco totale e di una totale lucidità verso quello che resta un nodo fondamentale e irrinunciabile del nostro passato.
Quando si proferisce il termine “civiltà”, benché sia ormai acquisizione di tutti che non si possa parlare in termini unitari, questo termine viene associato tout-court con l’Occidente – o nord del mondo che dir si voglia- senza volerlo, spesso senza nemmeno saperlo. Come rileva Cateno Tempio sin dalle battute iniziali del suo saggio:
L’occidente è l’umanità.
Non esiste humanitas che non sia occidentale. Alla parola ‘occidente’ non attribuiamo alcun significato prettamente geografico. La storia dell’occidente è volutamente trascurata e considerata solo in maniera indiretta.
Questo perché la storia ha visto trionfare la civiltà i cui capisaldi erano la razionalità logica e pragmatica, il potere del denaro e la religione, che si è imposta attraverso lo scontro armato, la conversione coatta e l’asservimento economico. Il consumismo capitalistico, in fondo, non è altro che il volto attuale della “civiltà”, un’evoluzione naturale che è anche causa della sua fine. È proprio dalle sue stesse premesse, in questa necessità inarrestabile di humanitas, (ove con humanitas si intenda l’insieme di valori in cui la “civiltà” si riconosce, il monumentum ideologico) che Cateno Tempio scorge i fattori demolitori dell’Occidente:
L’occidente utilizza, sfrutta, consuma tutto; l’utilizzato, il consumato ― questo e il mondo. In tal modo, la Terra deve essere ridotta sensibilmente, affinché tutto il pianeta diventi mondo. Per l’occidente non può esistere nulla che non sia passibile di sfruttamento. Chi non può essere recuperato dalla barbarie diventa un nemico del genere umano: nessuna pena e per lui sufficientemente orribile e nessuna tortura abbastanza crudele. Il suo è un destino di morte. Col progredire ed espandersi della forma occidentale che domina il globo, si è assistito a un fenomeno dalla portata mondiale: alla tribù, alla stirpe, alla razza, alla nazione, al popolo, perfino a dio si è sostituita l’umanità. Chi vuol essere salvato deve diventare umano. […]
Se ne deduce che l’immane catastrofe di proporzioni mondiali, che prende il nome di ‘globalizzazione’, e l’intento occidentale di umanizzare l’intero pianeta.
L’appetito pantagruelico dell’Occidente, giunto allo stadio estremo di “civiltà dei consumi”, ha eroso anche i presupposti culturali dell’esistenza dell’Occidente stesso, lo ha reso impotente, vittima e carnefice allo stesso tempo della sua fine. Lo scenario contemporaneo, ben delineato da Tempio, è già apocalittico, segnato dalla perdita di sovranità degli Stati, dallo stordimento morale (religione compresa), sotto l’egida imperante della crisi finanziaria. Il denaro e soprattutto la dottrina del benessere, “oppio d’Occidente”, hanno esaltato i popoli humani, vezzeggiandoli ma allo stesso tempo logorandoli. In un contesto come questo apocalissi e conversione assumono un significato più antico, più autentico, lontano dagli abusi di lingue di società in crisi come le nostre:
La tecnica sembra la forma sotto la quale si dispiega l’irresistibile arsenale dell’economia finanziaria. La tecnologia volge al mercato; questo è grande quanto il mondo intero. L’economia finanziaria copre, come una cappa oscura e soffocante, ogni angolo del globo.[…]La nuova religione universale che accomuna l’occidente, la ricuperata unita religiosa, è appunto l’economia.
In effetti assistiamo ad una progressiva unificazione dell’Europa che, almeno in superficie, pare non essere fondata sulla religione. L’Unione Europea è sorta da un fronte economico, quello del mercato comune. I parametri per entrare a far parte dell’assemblaggio europeo sono prettamente economici e non appena questi requisiti vengono meno scattano le minacce di esclusione. Tanto che se dal punto di vista del pensiero l’estromissione dall’Europa di un paese come la Grecia farebbe inorridire e rattristare, dalla prospettiva economica sarebbe pienamente giustificata e non farebbe battere ciglio.
Infine, a proposito delle due catastrofi:
Ci troviamo di fronte a due tipi di catastrofe: quella mondiale, che chiameremo apocalissi, e quella singolare, che chiameremo conversione, spogliando il termine da ogni connotazione religiosa.
[…]
Per immaginare due direttrici di verso opposto della stessa forza propulsiva, basti pensare alla differenza tra Gesù e Paolo.
Cristo è l’emblema della conversione, alla stregua di Talete:
uno sprofondare in se stessi che accetta la morte. Con la conversione, Cristo cambia tutto se stesso e con innocenza fanciullesca dice sì, consente alla necessità del cosmo, beve dall’amaro calice.
Paolo è l’apocalittico per eccellenza, il quale, piuttosto che piegare se stesso, cerca di piegare il mondo. Si scatena cosi la forma del dominio.
Le forze che sospingono apocalissi e conversione sono esattamente opposte: la catastrofe umanitaria e la catastrofe per il singolo si contrappongono.
A leggere queste parole, sembrerebbe che la via d’uscita da questa claustrofobica “ansia del domani” sia proprio quella rappresentata dalla conversione, ovvero un’astrazione del singolo dalla collettività, sprofondare in se stessi per ritrovare il senso, riconquistare l’autonomia dell’esistenza e dell’agire quotidiano.
[1] Sono l’Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti dove danza
il languore del sole in uno stile d’oro.
Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore.
Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente.
O non potervi, debole e così lento ai propositi,
o non volervi far fiorire un po’ quest’esistenza!
O non potervi, o non volervi un po’ morire!
Ah! Tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo?
Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!
Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme,
solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica,
solo, un tedio d’un non so che attaccato all’anima!
http://www.catenotempio.eu/testi
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La giovinezza è quel momento della vita in cui ciascuno, passando per scontri violenti e con ardimento altrettanto estremo, comincia ad esperire l’indipendenza, ma scopre inevitabilmente, d’altro canto, l’affanno della responsabilità.
Si sono misurate non soltanto con la costruzione dell’identità, ma soprattutto con le sorti dello scenario politico nazionale e con la difesa di valori universali, quali la libertà e il senso stesso della vita, le scelte coraggiose compiute nei primi anni ’40 dai giovani della Carniola –fra Jugoslavia e Friuli- organizzatisi in movimenti di resistenza partigiana.
«Oltre ad un ideale forte, quello che ci aveva aiutato era esser felici. La consapevolezza non era incoscienza ma entusiasmo». Sono queste le parole pronunciate da una di quei giovani, protagonista dello spettacolo È bello vivere liberi! (vincitore nel 2009 del “Premio Scenario per Ustica”) scritto, diretto e interpretato da una convincente e sicura Marta Cuscunà. La pièce ispirata all’omonimo libro di Anna Di Gianantonio (È bello vivere liberi. Ondina Peteani. Una vita tra lotta partigiana, deportazione ed impegno sociale, Irsml Friuli Venezia Giulia, 2007) ripercorre in sette capitoli la storia di Ondina Peteani, «nome di battaglia Natalia», prima staffetta partigiana d’Italia a soli diciassette anni, arrestata, deportata ad Auschwitz e sopravvissuta a quella «Babele di relitti umani, provata nel fisico, brutalizzata nella mente».
Punto di forza della messinscena, oltre alla pregnanza del messaggio, è il talento dell’interprete-drammaturga, che dà vita a uno spettacolo diverso, frutto della combinazione del teatro di narrazione monologica con quello di figura (non è la prima volta che la Cuscunà si cimenta in un esperimento simile, cito a tal proposito il suo precedente spettacolo Merma neverdies ): nonostante l’argomento tragico, Marta Cuscunà è riuscita a creare un’atmosfera frizzante, che non scade mai nel macchiettistico, ma anzi trasmette la felicità d’esser vivi. È un modo nuovo, questo, di misurarsi con un tema del genere, affrontato spesso e troppo dai media fino alla banalizzazione, affrancandolo dalla solita retorica da “giorno della memoria”, e lasciando emergere, invece, l’entusiasmo di tutta una generazione che ha combattuto per un mondo migliore e a cui dobbiamo la gioia di dire che «è bello vivere liberi!».
FèMA è la formazione artistica di due burattinai di ventennale esperienza. La parola fèma è il romagnolo di fame, e con una «fèma da cumedient» il duo si muove tra l’Emilia Romagna e la Lombardia per mettere in scena i suoi spettacoli aperti a tutte le età. FèMA, come i Cantastorie di Sicilia, è l’autonomia di una ricerca Resistente.
«Qualcuno ci ha chiesto per il 2015 uno spettacolo per ricordare l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo: è così che è nato lo spettacolo di burattini Una storia d'Imelda. Il nostro è un contributo non solo al mantenimento e alla difesa della memoria Resistente, ma anche una riflessione su cosa oggi sia la resistenza.»
Alla maniera dei burattini, Elis Ferracini e Maurizio Mantani, mettono al centro del loro spettacolo i valori della resistenza e della non-violenza negli accadimenti che coinvolsero l’Italia fascista che si avviava verso la fine della Seconda guerra mondiale. Sulla trasmissione della memoria e sull’importanza della fiaba si sono spesi fiumi di parole. Con un registro semplice e a tratti visitato da interessanti espressioni che riportano indietro nel tempo, lo spettacolo dei FèMA interpreta le motivazioni sociali ed egoistiche della guerra e della prevaricazione. È qui che entra in scena la Resistenza, come tentativo di non soccombere, di rifiutare le convinzioni del regime e di rieducarsi per lasciar spazio al nuovo: «Vogliamo porre attenzione; stare, cogliere e interpretare questa complessità senza divenirne vittime, anche in quei tentativi spesso deprimenti di “fare la televisione di legno”».
Raccontare la storia è un’impresa ardua ma evocare il passato attraverso i burattini permette di riviverlo alla luce dell’oggi, insieme ai bambini, prestando attenzione alla loro percezione, nell’improvvisazione e nel gioco: «Oggi il burattino, in questo mondo elettrico e di schermi, lui, dalla sua quarta parete sfondata, parla, ascolta e agisce e chiama le persone di tutte le età che “stanno al gioco” ad agire».
In Una storia d’Imelda le ragioni che consentirono l’avvento del Fascismo in Italia, la sua sconfitta, la sua continuità nell’Italia liberata dalla guerra sono messe in scena dai protagonisti-burattini: in loro si annida il desiderio di liberarsi dalle costrizioni e dalle miserie, ma seguendo l’esempio degli importanti personaggi noti, senza togliersi la maschera: «Non uscire ancora, stai nascosto… perché a dirigere l’orchestra siam sempre noi!», dice il cavaliere Duzio a Mario fascista. Fuggire il passato dunque non si può. L’autonomia nasce piuttosto dall’affrontare il passato, osservarlo per capirne i trucchi e nel togliergli la maschera incontrare l’altro: «Come pure osservava Grotowski, il teatro non è indispensabile. Serve ad attraversare le frontiere fra te e me, tra l’adulto e il bambino».
Quando l’asino Italo si rifiuta di lavorare e dice: «Eh già, a far sciopero perderesti tutte queste belle cose!», Sandrone non lo capisce e, serio, continua a rivangare e rivangare la sua terra, per conto d’altri. Il fascista Mario rivolgendosi a Sandrone, con disinvolta indifferenza dice, anche lui: «Me ne frego!», si abbandona al laissez-faire e rimane coinvolto nella Storia. Ingabbiato, ne diviene protagonista e con essa scende a compromessi, come il cavaliere Duzio che non cambia mai. Altri scappano: «Dachau meravigliao», canticchia Jurghen Purghen in fuga verso l’America Latina. «Gli uomini che mascalzoni», afferma la staffetta Mariù che crede nei sogni di un mondo migliore; mentre il partigiano Fagiolino, lui, sempre la saluta con un: «Bella ciao!».
Ma il coro dei bambini e il coro dei Resistenti oggi sono un’unica voce: «Perché mai dovremmo smettere di lottare, per poter finalmente cantare, liberamente, una musica finora mai sentita?». Come Buttitta e Ciccio Busacca che cantarono un intero paese nella storia di Turiddo Carnevale - che «non era santu e miraculi facìa, era l’amuri lu so capitale» - il teatro dei burattini e quello dei cantastorie sono il lavoro di chi crede nell’azione del ricordo come fruttuoso terreno di crescita civile. «Si può ripartire dai giovanissimi che sempre più raramente vivono la scuola come luogo di crescita. Nel teatro le competenze si allargano nel necessario confronto, nelle inevitabili “contaminazioni” di linguaggio, perché, in questo senso, di purezza si muore.»
Il “tour” Settanta mi dà tanto è proprio l'idea che molti dei temi e delle speranze frutto della lotta partigiana siano ancora da realizzare e che l’anniversario della Liberazione, prima che festeggiato, oggi, vada ricordato e compreso.
«Non è cambiato molto da allora e la fame c’è ancora. Ma la nostra fame è anche quella di mettere in scena il mondo che ci circonda per guardarlo più da vicino; è la fame di un teatro che serva a qualcosa.»
Articolo di Carmen Contino. Tutti i diritti riservati
Secondo te, noi nuove generazioni per riaccendere il dibattito sulla parola quale elemento fondante di una società, di una civiltà, di cultura, cosa dovremmo fare?
Riappropriarsi della parola, la parola d'altronde è già stata inventata. Riappropriandosi della parola, inevitabilmente questa si modernizza. Perché, poi, la parola è una, ma è il mezzo di trasporto quello che conta. Vien da sé che in questo processo di riappropriazione della parola, essa avrà le caratteristiche del tempo in cui viene usata. Il rapporto dialogico è la base. Ci sono tante pruderie adesso nei confronti del computer, dello smartphone, del tablet, e si sentono spesso e volentieri espressioni del tipo:«ah beh, i ragazzi che leggono i libri in e-book, non è bello perché non sentono l’odore della carta, non sfogliano il libro» . Quando mi trovo con persone intelligenti che fanno questo tipo di discorso dico: «ma sì, lo sai che hai ragione!Tu sai sentito la mancanza dell’argilla?» . Mi chiederai, ma che vuol dire tutto ciò?Prima del libro si scriveva sull’argilla. Chi scriveva sull’argilla, allora, quando è arrivato il codice avrà detto: «Ma che cosa assurda!E io che devo incidere il cuneiforme come faccio?Io che devo andare di geroglifico come faccio a inciderlo nel marmo?»E così siamo andati avanti fino ai papiri, ai codici in pergamena, a Gutenberg con la stampa. Noi oggi vediamo le email che sono nate con una motivazione atta alla differita o all'offesa, attraverso gli studi militari. Quando poi questa tecnologia è stata data a tutti c’era un accordo in cui la geolocalizzazione doveva sbagliare di non so quanti gradi… Ma perché siamo arrivati a questo? Tu mi devi fermare!
No, io invece ti ascolto molto volentieri, anche perché io mi occupo di editoria, e-book compresi. Sono interessato al tuo punto di vista in quanto uomo della generazione precedente alla mia, che non confonde ciononostante il supporto con l’essenza del libro. L’aspetto primordiale è il bisogno di narrazione, il bisogno di parola…
Inizialmente tutto veniva trasmesso in maniera orale. Ancora oggi se vuoi raccogliere tradizioni popolari, della musica popolare, delle nenie, delle ballate, lo devi fare in maniera orale. Solo che ora sono morti coloro che potevano trasmettere questo tesoro di tradizioni.
Come vedi invece noi giovani, quelli della mia generazione almeno, che stanno affacciandosi al mondo del lavoro?
Io non nutro alcuna forma di odio nei confronti dei giovani, come dice invece il personaggio del maggiordomo nello spettacolo Prima del silenzio :« io odio i giovani».Io no li vedo benissimo, perché è un segmento che ho già fatto, che ho unito alla mia retta di vita. La vita è una retta, un gioco all'infinito. È una linea che inizia con la vita, se la vogliamo dire materialmente. Cosa ci impedisce di dire che la vita è una retta senza un inizio e una fine? Dov'è il vero inizio di una vita? Solo da una copula? Un po’ riduttivo. Nasce anche prima. Una vita è un bagaglio di informazioni, un DNA che si trasmette da tempo. Quando questa vita terminerà non c’è una fine, non c’è un segmento, ma continuerà. Come, però, non lo sappiamo: questo è il mistero della vita. Quindi, perché devo “odiare” i giovani? Io sono affascinato dai giovani. Credo molto nell'interscambio dell’esperienze. L’esperienza è costruttiva per quanto riguarda i giovani, ma consolidante per quanto riguarda la persona matura, perché uno si potrebbe fissare su quello che è stato e non riuscire a addivenire, cioè ad andare avanti, a conoscere. E questa conoscenza la deve solo confrontandosi col percorso della conoscenza dei giovani. L’unica considerazione che faccio sulla generazione di oggi è che, in confronto alla mia generazione, è una gioventù sfortunata, perché tutto quello di buono che io ho avuto a livello generazionale - e quindi, un qualcosa che mi è stato dato gratuitamente- io so che la generazione di oggi e quelle a seguire non avranno. Perché non si è riusciti a consolidare nel tempo uno zoccolo duro affinché si potesse solo crescere e non decrescere.
Sono trascorsi più di tre quarti d’ora, più o meno, da quando, sfrontato ma in fondo imbarazzatissimo, ho rotto gli indugi per “sequestrarlo” con le mie domande. Improvvisamente affiorano i dettagli prosaici della routine, come ad esempio l’ultima corsa dell’autobus per me, la cena con il cast per lui, ma io continuo a sentirmi rapito dalla placidità di quest’uomo che accetta con serenità ogni sfida che il nuovo gli offre, preferendo, nel dubbio, il dialogo.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo
che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non
domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(E. Montale, Non chiederci la parola)
A quanto pare qualcuno ha deciso di fare del 21 marzo la giornata della poesia, e persino io ho preso parte a questo rito di massa “social”, non condividendo sui miei account versi copiati e incollati ad hoc, bensì assistendo a una bellissima “apologia” della parola attraverso la messinscena della sua morte. Ovviamente a teatro.
È la forza della parola che viene consacrata nello spettacolo Prima del silenzio di Giuseppe Patroni Griffi, in scena al teatro Verga di Catania (fino al 29 marzo sarà possibile assistere alle repliche), per la regia di Fabio Grossi, elegante e piacevole anche questa volta.
I protagonisti dello spettacolo sono un anonimo poeta maturo (interpretato dal grande Leo Gullotta), abulico, in crisi, perseguitato dai fantasmi dell’insulsa vita piccolo-borghese da cui è scappato, e un giovane ( Eugenio Franceschini) altrettanto anonimo, scalzo, incarnazione del vitalismo naturale. Il legame ambiguo fra i due sfugge anch’esso ad ogni tipo di definizione (sono amici?amanti?conoscenti?), e il tentativo di dialogo viene costantemente abortito, fino alla separazione dei protagonisti.
Due generazioni a confronto, quindi, due mondi che, seppur destinati a non toccarsi mai, accidentalmente si incontrano sulla scena per poi separarsi. E il perno, in ultima istanza, di questo raffronto è la parola, per l’anziano unico mezzo di espressione e di rievocazione di una realtà sempre più sfuggente, per il giovane un inutile orpello, che «non dà niente», strumento tutt’al più di bieca psicagogia.
A fine spettacolo, alquanto colpito dalla pièce in sé –scritta nel ’79 ma dialogante anche con la società italiana contemporanea- e dalla messinscena elegante, mai eccessiva, precisa e pregnante nell’uso degli elementi scenici ma senza ridondanze, mi dirigo con impeto -e con un bel po’ di faccia tosta- sul regista Fabio Grossi che avevo intravisto in fondo al teatro, per complimentarmi…e tra una parola e l’altra è nata la seguente intervista!
Lo spettacolo Prima del silenzio si conclude con una bellissima riflessione sulla parola attraverso la messinscena della sua morte. Quant’è importante la valorizzazione della componente verbale a teatro da parte di un regista?
Il riferimento allo spettacolo, Giuseppe Patroni Griffi ha voluto celebrare la morte della parola. Per celebrare la morte della parola ha usato uno sconto generazionale tra un “lui” e un “ragazzo”. Come vedi, lui soppesa molto bene le parole, non dà nome propri ai personaggi, ma genericamente l’”uomo” ed il “ragazzo”. Questo perché? Io ho desunto, per affrontare un discorso generale. Dunque, in un testo in cui si celebra la morte della parola, la parola è cardine di tutta la situazione. Il dovere di un regista è quello di rispettare il testo così come l’autore l’ha concepito, altrimenti si rifarebbe una rilettura, una rielaborazione. Quindi, la parola ha avuto un suo peso principe proprio perché era stata scritta in questa maniera. Il teatro serve alla diffusione della parola, lo è sempre stato, e gli Antichi lo hanno saputo prima di tutti e molto meglio di noi. Nella nostra generazione si cerca di chiudere i teatri, ma perché? Perché dissero una volta che «con la cultura non si mangia»?Non è questa la vera motivazione: è che in realtà con la cultura, con il teatro, con l’interscambio di emozioni, di idee, di concetti, di pensieri, il cittadino pensa. E il cittadino pensante dà fastidio a chi governa uno Stato. Veicolare la parola per far crescere le persone.
Una sorta di rito collettivo, com’è sempre stato sin dai primordi…
Purtroppo è stato mortificato dall’uso criminale della nuova tecnologia, ad esempio la televisione. La televisione ai primi anni ha formato un popolo uscito da un conflitto mondiale, in cui il livello di analfabetismo era altissimo, con programmi di didattica, ma anche di divulgazione. Considera che negli anni ’60 e ’70 andavano di moda i romanzi sceneggiati, altri non erano che dei mezzi per portare a conoscenza di chi non aveva potuto studiare, di chi non aveva dimestichezza con il libro, quello che grandi avevano scritto. E questa era la funzione sociale.
Il servizio pubblico, il cosiddetto “servizio pubblico”, deve avere una funzione sociale. Questo ora non c’è più, perché il servizio pubblico, guidato da una politica scorretta va a fare concorrenza con il privato, inseguendo cioè stilemi e parametri di prodotti televisivi privati (audience, share…): non facendo audience un programma viene cassato, e questo è uno sbaglio perché dovrebbe servire anche quei pochi che lo seguono. Mi ricordo che quando ero bambino la televisione trasmetteva I venerdì del teatro: ogni venerdì sera, in prima serata, c’era uno spettacolo teatrale, ora non si fa più qualcosa di simile perché non fa audience, e, non facendo audience non copre quel fittizio interesse che hanno oggi i responsabili del servizio di Stato. Quindi, vedi, la parola, indi conoscenza, è sempre cardine di una società.
Tornando allo spettacolo, si celebra la morte della parola come morte dell’uomo. Il nostro protagonista non si vedrà morto, ma io l’ho voluto raccontare come una sorta di epitafio finale, con quest’immagine ferma, enorme, dal sentore del lutto, che conclude questo mio spettacolo che si svolge e si involge intorno alla figura dell’uomo. Anche gli altri personaggi, escluso all’inizio il ragazzo, sono creazioni della mente dell’uomo. Patroni Griffi non ha scritto il testo dicendo : « lui immagina»; nella prima scrittura, quella più famosa, funestata purtroppo dopo la prima replica dalla scomparsa prematura dell’attore protagonista Romolo Valli, i personaggi comparivano sulla scena, e apparivano dietro delle tende. Io ho voluto raccontarli più precisamente, avendo oggi nel 2015 la possibilità di usare la tecnologia a favore del teatro, indi a favore della parola. Ne Ho voluto fare come una sorta di maieutica, in modo che dalla testa di questo personaggio uscissero degli incubi rappresentanti tutto quello che lui ha voluto abbandonare (la società che ha determinato la su crescita sociale e professionale), stanco di quel pressappochismo misto a presunzione. Quest’uomo, attraverso la parola, ha creato la sua vita perché è uno scrittore, un poeta, ma proprio dalla parola va voluto prendere le distanze, per poi riabbracciarla per allacciare un rapporto con il giovane, ma il giovane non è disposto, lo abbandonerà, proprio perché, come da battuta :«tu parli, parli, e non mi dai niente».
Si è parlato prima di tecnologia in funzione della messinscena. Ho notato anche in altri tuoi spettacoli (Le allegre comari di Windsor, L’uomo la Bestia e la Virtù) che non sei uno minimale, ami utilizzare i mezzi della scenotecnica, ma senza mai esagerare. Qual è secondo te la misura registica, ammesso che tu l’abbia trovata?
A detta di altri i miei spettacoli sono uno diverso dall’altro. Quando portai in scena Il piacere dell’onestà, il produttore venne da me e si complimentò proprio per il fatto che lo spettacolo fosse completamente diverso da quello precedente, parimenti bello. Per me fu un bellissimo complimento. Secondo me il regista che si riconosce da una sorta di stemmino lavora pro domo sua, non lavora per il testo, per lo spettacolo. Io con molta umiltà prendo il testo, lo leggo, lo penso e lo metto in scena, passando per la collocazione spazio-temporale che ne voglio dare. Soltanto questo. Nel caso specifico di Prima del silenzio, non avevo bisogno di scene, io non avrei messo scene, perché ogni elemento in più avrebbe depauperato l’autentica dimensione della solitudine. Nella prima edizione la scena era un marasma di libri e giornali, oltre ad altre cose (vasca da bagno, poltrona, pianoforte…). Oggi raccontare la confusione mentale di un uomo attraverso la confusione materiale l’ho sentito riduttivo. Ho preferito procedere spogliando tutto di tutte quelle indicazioni date dall’autore, ma lasciando soltanto quella che lui considera “la zattera” dove il naufrago si poggia, il divano cioè (il divano rosso che spicca in una scena vuota, unico elemento di scena). Poi tutto il resto era accennato, come il desiderio della moglie attraverso un cestino di mele verdi, la letteratura attraverso una pila di libri, la stessa scena di nudo del ragazzo è stata fornita con molta delicatezza e pudore (che non sta nel nascondere le pudenda, ma nel restituire intellettualmente e onestamente qualcosa). Io dovevo servire un nudo, un nudo che doveva essere la provocazione del nostro protagonista. Troppo semplice, non si provoca più mettendosi nudi davanti le persone! Però ho provocato il pubblico, perché in quel momento c’è solo il nudo e il pubblico. Poi ho voluto velare per rispetto dell’attore, per rispetto anche del pubblico, attraverso l’immagine di una doccia (in realtà è una cascata). Anche questa provocazione del nudo ho voluto filtrare attraverso l’onestà: faccio intuire la bellezza di un corpo giovane, aitante in contrasto all’abito sgualcito dell’uomo, un uomo abbandonato a se stesso, vissuto. Il ragazzo no, il ragazzo per tutto lo spettacolo è scalzo, ha tutto un contatto con la realtà ben precisa. Attaccando la pelle al suolo. Solo quando va via indossa delle scarpe nuovissime. [segue…]